lunedì 13 aprile 2015

A L’ALTRACITTA’ LE SUGGESTIONI PIANISTICHE DI STEFANIA SURACE INCANTANO LA PLATEA


L’idea è nata in un battito d’ali.
Una giovane entra alla libreria L’ALTRACITTA’, si guarda intorno, sbircia qualche libro, pare gradire l’intero spazio finché i suoi occhi sono irrimediabilmente attratti dal vecchio pianoforte verticale RUMON, di inizio novecento, che troneggia all’ingresso: tanto legno e feltro per un suono denso, malconcio ma ancora vivo e voglioso di regalare le sue note
Non è un pianoforte perfetto. Lo si capisce subito.
 Il grande artigiano/artista di via Arezzo, il signor Giovanni Fabbri, ogni tanto deve pazientemente  intervenire con piccole operazioni di rianimazione del suono, riassettarlo, tonificarlo con una serie di tocchi e ritocchi. Ma la giovane sente lo stesso il desiderio di sfiorare qualche tasto, fraseggiare qualche melodia, accennare a qualche progressione armonica. E il suono le piace così com’è.
Poi scopri che quella giovane è una pianista, si chiama STEFANIA SURACE, ha avuto un percorso musicale particolare e discontinuo: fino all’adolescenza, disciplinata, studiosa, pianista con il dovuto bagaglio di scale, modulazioni, solfeggio, armonia e contrappunto. Poi, l’improvviso e COMPLETO abbandono della sua arte, “deviato” da aspettative più terrene e “concrete” (laurea in scienze politiche alla LUISS e una serie di master di specializzazione) e quindi, all’età di 27 anni, il prepotente ritorno del sacro fuoco musicale che la fa tornare all’antica vocazione e a ispirarle la composizione di nuove musiche.

Stefania Surace, infatti, ha da poco pubblicato un cd (grazie al finanziamento “dal basso” denominato crowfunding) dal titolo FATAMORGANA (il fenomeno ottico Fata Morgana che si verifica nello stretto tra Messina e Reggio Calabria) che raccoglie le sue preziose composizioni musicali, dei veri e propri gioielli pianistici.
E così scatta subito l’accordo: Stefania vuole suonare quel vecchio piano che sa tanto di familiare, di piccolo appartamento, di prime lezioni apprese. Lo vuole fare per il quartiere, un’occasione per creare un angolo intimo e informale di ascolto.
E ieri, finalmente, il rito pattuito è avvenuto.
La splendida giornata di sole aveva fatto temere qualche defaillance di pubblico e invece, gradatamente, la libreria L’ALTRACITTA’ si riempita in ogni ordine di posti.  Stefania Surace ha affascinato l’audience con la forza dei brani da lei composti: atmosfere rarefatte, melodie che catturano immediatamente l’animo. La sua tecnica compositiva è fatta di sottili tessiture melodiche che si intrecciano, a volte si dilatano, come una sorta di quadro che si compone e si disfà poco dopo. La struttura dei suoi pezzi  risente (positivamente) della componente emotiva e visionaria della narrazione e nello stesso tempo è razionale perché ogni racconto musicale ha dei tempi e dei luoghi che devono incastrarsi con rigore e meticolosità. I pezzi sono brevi, suggestivi. Le melodie piene d’incanto e stupore. Stefania Surace, nell’occasione, presenta anche dei brani inediti che faranno parte di un poema sonoro ispirato da alcune favole. La serata, insomma, scorre piacevole, quasi amichevole, si sta intorno al vecchio piano e Stefania si scusa di dover volger le spalle al pubblico per suonare. E il vecchio piano RUMON accoglie benevolmente le dita affusolate e virtuose di Stefania, il suo sensibile tocco, le linee melodiche accattivanti che il suo estro creativo produce. Applausi su applausi, strette di mano e abbracci, Stefania si congeda con due bis e nelle orecchie di tutti, a serata conclusa, echeggia ancora il suono e la melodia dell’apparizione della fata morgana, la sua luce, la sua visionaria poeticità.


S.F.

giovedì 9 aprile 2015

JOHN FANTE: SCRITTORE CULT "PER CASO"



Leggenda vuole che a scoprirlo sia stato il vecchio Hank Chinasky: ossia, il mitico Charles Bukowsky. Tutto per puro caso. Un dialogo, un minuscolo dialogo ficcato, quasi insignificante, all’interno del suo romanzo “Women” e contenente quella “storica” ammissione: il suo scrittore preferito era  un “italian” di nome John Fante.
L’editore della Black Sparrow Books che gli telefona  per complimentarsi per la “genialata” di aver inserito nel romanzo il nome di “fantasia” di uno scrittore mai esistito e l’inattesa reazione di Bukowsky: “ma quale nome di fantasia? John Fante  è il più grande scrittore vivente… ha scritto romanzi veri…John Fante è il mio Dio!...ora il poveraccio sta tirando le cuoia…”.

Era l’inizio degli anni ’80 e un signore anziano, italiano d’origine, stava, ormai cieco e con le gambe mozzate da un diabete divorante, penosamente adagiato in un lettino dell’ospedale di Woodland Hills. Venne raggiunto al capezzale dal grande scrittore americano e dal suo editore. Era scoccata l’ora: anche l’America, anche l’Europa, tutto il mondo, avrebbero fatto conoscenza, di lì a poco, della splendida prosa di questo misconosciuto italo-americano. L’editore, infatti, decise immediatamente di ristampare i suoi romanzi “ufficiali”: “Aspetta fino a primavera Bandini”, “Chiedi alla polvere”, “Dago Red” (raccolta di racconti) e “Full of life” e da allora, tanta, tantissima gente lo avrebbe amato, letto, divorato e mai più abbandonato.

Bukowsky curò proprio l’introduzione di “Chiedi alla polvere” il romanzo che l’aveva più influenzato, ispirato e che, come ammise lo stesso Buk, aveva rappresentato per lui una sorta di iniziazione alla scrittura “...capii subito di essere arrivato in porto (…) “le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso



Ma chi era John Fante? Era un americano di seconda generazione (nato a Denver in Colorado nel 1909) originario di un paesino in provincia di Chieti: Torricella Peligna. Figlio di Nick Fante e di Maria Capoluongo.
Aveva assorbito e conservato una certa italianità di allora, quella dei pranzi abbondanti, sugosi e saporiti e l’alone disperato e disperante di una religione cattolica a sfondo penitenziale con spire di rosari incrociati e nenie lacrimose, quella di chi spesso rinnegava il proprio cognome così visibilmente poco americano e, al contrario, aspirava a diventare uno di loro: un wasp, ossia casa, prato verde e Cadillac tirata a lucido. Tranne quando il grande Joe Di Maggio riportava prepotentemente in auge l’orgoglio italico obbligando tutti a dichiararsi felicemente “Italians!!!”
John Fante era soprattutto un giovane che amava scrivere, galvanizzato dalla scoperta di uno scrittore come Sherwood Anderson che, con la sua raccolta di racconti “Ohio – Winesburg”, aveva dimostrato al mondo intero che la prosa secca, semplice, i bozzetti di vita ripresi dal vero erano scrittura nobile, diretta, che  diceva tutto.
I primi tentativi di Fante scrittore andarono proprio in quella direzione: racconti brevi, ritratti di vita reale di “paesani” e filippini, “greaser” messicani e americani wasp irraggiungibili, “pezzi” ancora sbilenchi, bisognosi di revisione eppure pulsanti di vita e di carne. Tanto che il grande editore dell”American Mercury” e scrittore per il “New Yorker”, H.L. Mencken lo nota, lo incoraggia, lo sostiene anche con qualche assegno non sempre striminzito e gli caldeggia le sacre regole del buon scrivere.
Fante insiste, fa mille lavoretti per mantenersi da vivere, tiene una fitta corrispondenza con la madre che lo foraggia con un’infinita schiera di nomi di santi e madonne da invocare per avere la grazia. Riempie foglio su foglio di frasi, paragrafi, capitoli, con la sua rugginosa macchina da scrivere. E alla fine, dopo un romanzo rifiutato (“Le strade per Los Angeles”, poi pubblicato postumo), la montagnola bianconera che giace in un angolo vicino al suo letto diviene finalmente il suo primo romanzo che trova un editore: “Aspetta fino a primavera, Bandini”.  Era il 1937.
Il romanzo, pur apprezzato, non riesce a sfondare veramente. La critica ne loda lo stile, infila Fante nel troppo generico “girone” degli scrittori realisti, apprezza la buona tenuta della trama e dei dialoghi, il pubblico rispose con troppa sobrietà: vendite, dunque, modeste. Quello che la critica non riuscì subito a notare era il succo di ironia e ferocia spesso auto-denigrante che l’affresco familiare di “Aspetta fino a primavera, Bandini” conteneva: tre generazioni di italiani sullo sfondo e le ambizioni di un italiano “piccolo piccolo” in balia della sua fame di fama, tiranneggiato dall’asfissia della famiglia italiana “all’antica” e l’impenetrabilità  della struttura sociale americana. Nel mezzo, una prosa audace, corrosiva, piena di verve e umorismo.
Una prova ottima che meritava sicuramente migliore sorte.
John Fante accusò il colpo ma continuò imperterrito a scrivere dietro le spinte del sempre più prezioso Mencken. Iniziò a “buttare giù” un romanzo “d’inchiesta” sul lavoro sottopagato dei filippini che non riuscì mai a concludere per poi procedere alla stesura di quella che diverrà la sua opera più rappresentativa, famosa, influente: “Chiedi alla polvere”.  Pubblicata nel 1939
Fante in questo romanzo “libera” ancora di più la sua scrittura, la intinge negli angoli scarni e maleodorante di una Los Angeles notturna e amara, la riempie di amore caustico per fare incrociare le storie di Arturo Bandini, scrittorucolo italiano aspirante americano e l’ancor più reietta Camilla Lopez, cameriera messicana. La grande città a ingoiarli nella loro disperata ricerca di se stessi, nella loro complicata relazione sentimentale, nelle loro ambizioni sempre più smorzate. E poi quello stile, ineguagliabile:  frasi secche e ipnotiche, umorismo spietato.
Anche in questo caso, grandi apprezzamenti ma vendite non esaltanti: meno di tremila copie, ricorderà lo stesso John Fante proprio in uno degli ultimi romanzi. Ma la sua scrittura colpisce, stordisce gli addetti i lavori. Gli studios americani hanno le orecchie grandi e la vista lunga.  Quello scrittore non può sfuggire alle fitte maglie dell’industria cinematografica, al businnes del cinema.
Denaro, tanto denaro. Con poco impegno da metterci: revisionare le sceneggiature, rivedere qualche dialogo, tutto qui. Un’offerta che non si può rifiutare. 


John Fante a Hollywood, come sceneggiatore, guadagna in un settimana quello che il mestiere di muratore del padre riesce a produrre in un anno, acquista una splendida casa a Malibu (Nel 1937 aveva sposato la poetessa Joyce Smart) e raggiunge una certa tranquillità economica. John si immerge nel mondo patinato dell’ambiente cinematografico a colpi di martini e partite di golf, gossip coi colleghi, ipocrisie d’ambiente. La scrittura, la scrittura vera, comincia a sfuggirgli gradualmente di mano. I film per cui scrive sono robettuola commerciale, western e sdolcinatezze per un pubblico ritenuto idiota, nutrito a bugie e popcorn e deve tenere la sua penna sempre più ferma, controllata, vincolata alle urgenze commerciali di quel mondo di celluloide.
Fante ne soffre, comincia a sprofondare nel vizio del bere, il suo caratteraccio tendente alla sfrontata irriverenza lo allontana anche dai salotti buoni. Proprio nell’ultimo suo romanzo, “I sogni di Bunker Hill”, dettato alla propria moglie in letto di morte (e pubblicato nel 1985 due anni dopo la sua dipartita), raccontò dell’amara esperienza hollywoodiana che lo allontanò dalla sua amata scrittura.
E’ questo, in fondo, il nucleo della storia umana, della commedia umana, di John Fante: la lotta tra il suo vero amore: la scrittura e la sua grande paura ancestrale: ritornare a essere un indigente. John Fante scelse di non essere più povero, come un emigrante qualsiasi, strozzando il proprio talento anzi nascondendolo, quasi vergognandosene. John Fante, in verità, non aveva mai smesso di scrivere. Ma lo aveva taciuto. Soprattutto a se stesso. Romanzi usciti postumi come “A ovest di Roma” o lo stesso “Full of life” suo primo e vero successo, pubblicato nel 1952, sono la testimonianza del grande e inossidabile talento di questo splendido narratore. Oggi John Fante è un autore “riscoperto”, lanciato “per caso” da un dialogo minuscolo di Bukowsky, un piccolo seme esploso che ha finito per nutrire di letteratura vera milioni di persone, fan accaniti e simpatizzanti di questo piccolo, grande genio letterario italiano (ma anche un po’ americano).

(S. F.)

martedì 7 aprile 2015

VISIONI E SQUARCI DI LUCE NELLA POETICA DI DYLAN THOMAS


“La parola balenava nei versi magici di Dylan Thomas come un raggio di sole riflesso in un orecchio”
Charlie Chaplin

“Lascio che un’immagine si crei”
Dylan Thomas 


Molti di noi lo scoprirono grazie all’intercessione di un altro grande procacciatore di versi: Bob Dylan.
Tutto accadde quando il menestrello del folk-rock americano ammise, in un’intervista, di aver mutuato il suo vero e spigoloso cognome, Zimmermann, con quello di un oscuro poeta gallese:  Dylan Thomas, appunto.
Ci mettemmo subito in tasca questo nome, con allegato quel certificato di garanzia  che, per l’epoca,  valeva tanto. E questo scatenò la caccia. Caccia ai suoi libri, ai suoi versi, ai brandelli di biografia che già circolavano strampalati e oscuri caricando ancor più di suggestioni e mito la figura di questo autore.
Ma chi era Dylan Thomas?
Scoprimmo che era un giovane gallese, dedito all’alcool, morto a soli 39 anni nel 1953 per un accidentale somministrazione di morfina dopo un suo ricovero per intossicazione. 
In verità era, soprattutto, un grande poeta, scrittore, autore di radiodrammi, attore e speaker radiofonico. Ci precipitammo a leggerlo già immaginando di trovare nei suoi scritti tracce di quella narrazione epica, polverosa e fatta di lunghe e tortuose strade che buona parte dei cantori inglesi e americani avevano poi narrato, poetizzato e versato in centinaia di canzoni.


 Ma Dylan Thomas era davvero altro. Diverso dai poeti della sua generazione, scollato da mode e ambienti accademici ufficiali, isolato e febbrile orafo di parole e felice combinatore di materiali semantici. La sua era una poesia “difficile”, fatta di visioni, di frasi zeppe di energia e dolore, di tracce di infanzia e innocenza perdute. Piena, soprattutto, di parole sonore e immagini.
La sua poesia, proprio per questa pronunciata visionarietà, fu accostata a quella di William Blake, poi coniata come neoromantica, quindi affiancata alla lirica di Keats.
La verità era, invece, una sola: Dylan Thomas era, innanzitutto, un grande artigiano. Un lavoratore del verso. Per scrivere una sola parola lavorava sulle sovrapposizioni di frasi per ore e ore. Addirittura mesi, per comporre un’unica strofa. Le sue poesie, spesso brevi, di forma sghemba, giocavano sulla rima per affermare verità indigeste, ma molto più spesso erano cesellate in frasi isolate, piene di luce e oscurità al contempo, immagini di nascita e deperimento. Vita e morte.  
Pubblicò la sua prima raccolta di poesie ( Eighteen poems) a soli venti anni. E la sua fama esplose.

“Il momento magico d’una poesia è sempre casuale. Nessun poeta faticherebbe tanto su questa complicata arte che è il far poesia se non sperasse in un improvviso e accidentale verificarsi di quel momento. (…) E la poesia migliore è quella in cui le parti faticate e non magiche sono più vicine, per struttura e intensità, a quei momenti di casuale magia” ( DYLAN THOMAS da “Sulla poesia”, trasmissione della BBC).

Dylan Thomas, come detto, cantava l’innocenza. La sua perdita. Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla natura. Ma era, soprattutto, il modo in cui lo faceva a renderlo unico: “una mia poesia abbisogna di una falange di immagini(…) e ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria distruzione”.
La caratteristica della poesia di Dylan Thomas consisteva in questo: obbligava il lettore al suo riuso. Era una poesia che non si bruciava con la lettura diretta, come avviene con altri poeti e altre poesie,  ti obbligava a tornare sulla parola, sviscerarne l’immagine, combinarla con altre frasi.  Creava piani diversi di lettura. Versi sempre difficili, sempre fuggevoli.
Le poesie di Thomas “sono costruite di immagini auto-generate per immagini e assonanze” (dall’introduzione di Massimo Bagigalupo alle lettere d’amore di Dylan Thomas): questa è la ragione per cui la lettura dei suoi versi è spesso un’esperienza disorientante.



Ma la poetica di Dylan Thomas non era solo la sua poesia. C’era dell’altro.
L’unicità di Dylan Thomas e della sua poetica consisteva proprio in questo: il poeta non si “liberava” mai della sua poesia versandola sul foglio: Dylan Thomas  viveva la sua poesia.
I contributi migliori per capire la sua arte, diventano così le lettere. La vita che ne è contenuta. Due intensissime raccolte (Ritratto del poeta attraverso le lettere e Lettere d’amore) sono a mio avviso, il modo migliore per immergersi nella sua scrittura ricca, fulminea, zeppa di ricordi  e di umori poetici.
E’ fuori dal furore creativo, della ricerca febbrile del verso, quasi nel divertissement, che Dylan Thomas sfoggia le sue impressionanti doti di musicista del verso.  Leggere i suoi racconti di ricordi di infanzia (ritratto dell’autore da cucciolo) è quanto di più godibile, affascinante, misterioso e poetico in cui ci si può imbattere. La sua è una penna furente, piena di squarci e virate improvvise, di ricordi teneri, di immagini odorose e colori grigio-vivo. Una prosa in cui la poesia viene spalmata, accennata, fatta mescolare al ritmo e allo humour con un risultato che ha dello stupefacente. La raccolta dei suoi radiodrammi  (molto presto di mattina), in verità splendidi e poetici soliloqui, forse rappresentano il momento più affascinante e strictu sensu poetico della sua produzione. Ricordi di infanzia e di vita nella sua Swansea, la spiaggia, i molluschi, la forza del mare, storie notturne e di festa. Tutto il paesaggio intriso di musicale malinconia.
Dylan Thomas era anche un istrione, i suoi reading poetici, qualcosa di molto vicino a moderni concerti rock: strapagati, affollati, spesso degeneravano in rissa.
E poi il suo rapporto con l’alcool: la sua vita ne era imbevuta. Qualcuno di recente disse che la sua era “un’innocenza che proteggeva bevendo”. Difficile da credere. Mescolare alcool e poesia spesso, in passato, ha portato alla creazione di falsi miti. Quando Dylan Thomas beveva, beveva e basta. Era l’atto dello scrivere, del ricercare la sonorità del verso, era l’intingere la frase di luce che proteggevano la sua innocenza, la facevano diventare arte, visione del mondo. Autentica vita da poeta.

(S.F.)