martedì 7 aprile 2015

VISIONI E SQUARCI DI LUCE NELLA POETICA DI DYLAN THOMAS


“La parola balenava nei versi magici di Dylan Thomas come un raggio di sole riflesso in un orecchio”
Charlie Chaplin

“Lascio che un’immagine si crei”
Dylan Thomas 


Molti di noi lo scoprirono grazie all’intercessione di un altro grande procacciatore di versi: Bob Dylan.
Tutto accadde quando il menestrello del folk-rock americano ammise, in un’intervista, di aver mutuato il suo vero e spigoloso cognome, Zimmermann, con quello di un oscuro poeta gallese:  Dylan Thomas, appunto.
Ci mettemmo subito in tasca questo nome, con allegato quel certificato di garanzia  che, per l’epoca,  valeva tanto. E questo scatenò la caccia. Caccia ai suoi libri, ai suoi versi, ai brandelli di biografia che già circolavano strampalati e oscuri caricando ancor più di suggestioni e mito la figura di questo autore.
Ma chi era Dylan Thomas?
Scoprimmo che era un giovane gallese, dedito all’alcool, morto a soli 39 anni nel 1953 per un accidentale somministrazione di morfina dopo un suo ricovero per intossicazione. 
In verità era, soprattutto, un grande poeta, scrittore, autore di radiodrammi, attore e speaker radiofonico. Ci precipitammo a leggerlo già immaginando di trovare nei suoi scritti tracce di quella narrazione epica, polverosa e fatta di lunghe e tortuose strade che buona parte dei cantori inglesi e americani avevano poi narrato, poetizzato e versato in centinaia di canzoni.


 Ma Dylan Thomas era davvero altro. Diverso dai poeti della sua generazione, scollato da mode e ambienti accademici ufficiali, isolato e febbrile orafo di parole e felice combinatore di materiali semantici. La sua era una poesia “difficile”, fatta di visioni, di frasi zeppe di energia e dolore, di tracce di infanzia e innocenza perdute. Piena, soprattutto, di parole sonore e immagini.
La sua poesia, proprio per questa pronunciata visionarietà, fu accostata a quella di William Blake, poi coniata come neoromantica, quindi affiancata alla lirica di Keats.
La verità era, invece, una sola: Dylan Thomas era, innanzitutto, un grande artigiano. Un lavoratore del verso. Per scrivere una sola parola lavorava sulle sovrapposizioni di frasi per ore e ore. Addirittura mesi, per comporre un’unica strofa. Le sue poesie, spesso brevi, di forma sghemba, giocavano sulla rima per affermare verità indigeste, ma molto più spesso erano cesellate in frasi isolate, piene di luce e oscurità al contempo, immagini di nascita e deperimento. Vita e morte.  
Pubblicò la sua prima raccolta di poesie ( Eighteen poems) a soli venti anni. E la sua fama esplose.

“Il momento magico d’una poesia è sempre casuale. Nessun poeta faticherebbe tanto su questa complicata arte che è il far poesia se non sperasse in un improvviso e accidentale verificarsi di quel momento. (…) E la poesia migliore è quella in cui le parti faticate e non magiche sono più vicine, per struttura e intensità, a quei momenti di casuale magia” ( DYLAN THOMAS da “Sulla poesia”, trasmissione della BBC).

Dylan Thomas, come detto, cantava l’innocenza. La sua perdita. Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla natura. Ma era, soprattutto, il modo in cui lo faceva a renderlo unico: “una mia poesia abbisogna di una falange di immagini(…) e ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria distruzione”.
La caratteristica della poesia di Dylan Thomas consisteva in questo: obbligava il lettore al suo riuso. Era una poesia che non si bruciava con la lettura diretta, come avviene con altri poeti e altre poesie,  ti obbligava a tornare sulla parola, sviscerarne l’immagine, combinarla con altre frasi.  Creava piani diversi di lettura. Versi sempre difficili, sempre fuggevoli.
Le poesie di Thomas “sono costruite di immagini auto-generate per immagini e assonanze” (dall’introduzione di Massimo Bagigalupo alle lettere d’amore di Dylan Thomas): questa è la ragione per cui la lettura dei suoi versi è spesso un’esperienza disorientante.



Ma la poetica di Dylan Thomas non era solo la sua poesia. C’era dell’altro.
L’unicità di Dylan Thomas e della sua poetica consisteva proprio in questo: il poeta non si “liberava” mai della sua poesia versandola sul foglio: Dylan Thomas  viveva la sua poesia.
I contributi migliori per capire la sua arte, diventano così le lettere. La vita che ne è contenuta. Due intensissime raccolte (Ritratto del poeta attraverso le lettere e Lettere d’amore) sono a mio avviso, il modo migliore per immergersi nella sua scrittura ricca, fulminea, zeppa di ricordi  e di umori poetici.
E’ fuori dal furore creativo, della ricerca febbrile del verso, quasi nel divertissement, che Dylan Thomas sfoggia le sue impressionanti doti di musicista del verso.  Leggere i suoi racconti di ricordi di infanzia (ritratto dell’autore da cucciolo) è quanto di più godibile, affascinante, misterioso e poetico in cui ci si può imbattere. La sua è una penna furente, piena di squarci e virate improvvise, di ricordi teneri, di immagini odorose e colori grigio-vivo. Una prosa in cui la poesia viene spalmata, accennata, fatta mescolare al ritmo e allo humour con un risultato che ha dello stupefacente. La raccolta dei suoi radiodrammi  (molto presto di mattina), in verità splendidi e poetici soliloqui, forse rappresentano il momento più affascinante e strictu sensu poetico della sua produzione. Ricordi di infanzia e di vita nella sua Swansea, la spiaggia, i molluschi, la forza del mare, storie notturne e di festa. Tutto il paesaggio intriso di musicale malinconia.
Dylan Thomas era anche un istrione, i suoi reading poetici, qualcosa di molto vicino a moderni concerti rock: strapagati, affollati, spesso degeneravano in rissa.
E poi il suo rapporto con l’alcool: la sua vita ne era imbevuta. Qualcuno di recente disse che la sua era “un’innocenza che proteggeva bevendo”. Difficile da credere. Mescolare alcool e poesia spesso, in passato, ha portato alla creazione di falsi miti. Quando Dylan Thomas beveva, beveva e basta. Era l’atto dello scrivere, del ricercare la sonorità del verso, era l’intingere la frase di luce che proteggevano la sua innocenza, la facevano diventare arte, visione del mondo. Autentica vita da poeta.

(S.F.)


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