“La parola balenava nei versi magici di Dylan Thomas come un raggio di
sole riflesso in un orecchio”
Charlie Chaplin
“Lascio che un’immagine si crei”
Dylan Thomas
Molti di noi lo scoprirono grazie
all’intercessione di un altro grande procacciatore di versi: Bob Dylan.
Tutto accadde quando il
menestrello del folk-rock americano ammise, in un’intervista, di aver mutuato
il suo vero e spigoloso cognome, Zimmermann, con quello di un oscuro poeta
gallese: Dylan Thomas, appunto.
Ci mettemmo subito in tasca questo
nome, con allegato quel certificato di garanzia
che, per l’epoca, valeva tanto. E
questo scatenò la caccia. Caccia ai suoi libri, ai suoi versi, ai brandelli di
biografia che già circolavano strampalati e oscuri caricando ancor più di
suggestioni e mito la figura di questo autore.
Ma chi era Dylan Thomas?
Scoprimmo che era un giovane
gallese, dedito all’alcool, morto a soli 39 anni nel 1953 per un accidentale
somministrazione di morfina dopo un suo ricovero per intossicazione.
In verità era, soprattutto, un
grande poeta, scrittore, autore di radiodrammi, attore e speaker radiofonico. Ci
precipitammo a leggerlo già immaginando di trovare nei suoi scritti tracce di
quella narrazione epica, polverosa e fatta di lunghe e tortuose strade che
buona parte dei cantori inglesi e americani avevano poi narrato, poetizzato e
versato in centinaia di canzoni.
Ma Dylan Thomas era davvero altro. Diverso dai
poeti della sua generazione, scollato da mode e ambienti accademici ufficiali,
isolato e febbrile orafo di parole e felice combinatore di materiali semantici.
La sua era una poesia “difficile”, fatta di visioni, di frasi zeppe di energia
e dolore, di tracce di infanzia e innocenza perdute. Piena, soprattutto, di
parole sonore e immagini.
La sua poesia, proprio per questa
pronunciata visionarietà, fu accostata a quella di William Blake, poi coniata
come neoromantica, quindi affiancata alla lirica di Keats.
La verità era, invece, una sola: Dylan
Thomas era, innanzitutto, un grande artigiano. Un lavoratore del verso. Per
scrivere una sola parola lavorava sulle sovrapposizioni di frasi per ore e ore.
Addirittura mesi, per comporre un’unica strofa. Le sue poesie, spesso brevi, di
forma sghemba, giocavano sulla rima per affermare verità indigeste, ma molto
più spesso erano cesellate in frasi isolate, piene di luce e oscurità al
contempo, immagini di nascita e deperimento. Vita e morte.
Pubblicò la sua prima raccolta di
poesie ( Eighteen poems) a soli venti
anni. E la sua fama esplose.
“Il momento magico d’una poesia è
sempre casuale. Nessun poeta faticherebbe tanto su questa complicata arte che è
il far poesia se non sperasse in un improvviso e accidentale verificarsi di
quel momento. (…) E la poesia migliore è quella in cui le parti faticate e non
magiche sono più vicine, per struttura e intensità, a quei momenti di casuale
magia” ( DYLAN THOMAS da “Sulla poesia”, trasmissione della BBC).
Dylan Thomas, come detto, cantava
l’innocenza. La sua perdita. Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla natura. Ma
era, soprattutto, il modo in cui lo faceva a renderlo unico: “una mia poesia abbisogna di una falange di
immagini(…) e ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria
distruzione”.
La caratteristica della poesia di
Dylan Thomas consisteva in questo: obbligava il lettore al suo riuso. Era una
poesia che non si bruciava con la lettura diretta, come avviene con altri poeti
e altre poesie, ti obbligava a tornare
sulla parola, sviscerarne l’immagine, combinarla con altre frasi. Creava piani diversi di lettura. Versi sempre
difficili, sempre fuggevoli.
Le poesie di Thomas “sono costruite di immagini auto-generate
per immagini e assonanze” (dall’introduzione di Massimo Bagigalupo alle
lettere d’amore di Dylan Thomas): questa è la ragione per cui la lettura dei
suoi versi è spesso un’esperienza disorientante.
Ma la poetica di Dylan Thomas non
era solo la sua poesia. C’era dell’altro.
L’unicità di Dylan Thomas e della
sua poetica consisteva proprio in questo: il poeta non si “liberava” mai della
sua poesia versandola sul foglio: Dylan Thomas viveva la sua poesia.
I contributi migliori per capire
la sua arte, diventano così le lettere. La vita che ne è contenuta. Due
intensissime raccolte (Ritratto del poeta
attraverso le lettere e Lettere
d’amore) sono a mio avviso, il modo migliore per immergersi nella sua
scrittura ricca, fulminea, zeppa di ricordi e di umori poetici.
E’ fuori dal furore creativo,
della ricerca febbrile del verso, quasi nel divertissement, che Dylan Thomas
sfoggia le sue impressionanti doti di musicista del verso. Leggere i suoi racconti di ricordi di
infanzia (ritratto dell’autore da
cucciolo) è quanto di più godibile, affascinante, misterioso e poetico in
cui ci si può imbattere. La sua è una penna furente, piena di squarci e virate
improvvise, di ricordi teneri, di immagini odorose e colori grigio-vivo. Una
prosa in cui la poesia viene spalmata, accennata, fatta mescolare al ritmo e
allo humour con un risultato che ha dello stupefacente. La raccolta dei suoi
radiodrammi (molto presto di mattina), in verità splendidi e poetici soliloqui,
forse rappresentano il momento più affascinante e strictu sensu poetico della
sua produzione. Ricordi di infanzia e di vita nella sua Swansea, la spiaggia, i
molluschi, la forza del mare, storie notturne e di festa. Tutto il paesaggio
intriso di musicale malinconia.
Dylan Thomas era anche un
istrione, i suoi reading poetici, qualcosa di molto vicino a moderni concerti
rock: strapagati, affollati, spesso degeneravano in rissa.
E poi il suo rapporto con
l’alcool: la sua vita ne era imbevuta. Qualcuno di recente disse che la sua era
“un’innocenza che proteggeva bevendo”. Difficile da credere. Mescolare alcool e
poesia spesso, in passato, ha portato alla creazione di falsi miti. Quando
Dylan Thomas beveva, beveva e basta. Era l’atto dello scrivere, del ricercare la
sonorità del verso, era l’intingere la frase di luce che proteggevano la sua
innocenza, la facevano diventare arte, visione del mondo. Autentica vita da
poeta.
(S.F.)
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